Putin ha ‘vinto’ ma queste elezioni rappresentano un elemento di rottura rispetto al passato

La vittoria di Vladimir Putin alle elezioni presidenziali del 15-17 marzo, con l’87,26% dei voti e un’affluenza pari al 77,44%, ha superato gli obiettivi posti, più da campagna manageriale che elettorale, dall’amministrazione presidenziale e da Sergei Kirienko, responsabile della sua direzione politica, i quali prevedevano rispettivamente l’80% e il 70% per il presidente ormai alla testa del paese dal 1 gennaio 2000. Numeri che appaiono schiaccianti nella propria enormità, e prontamente utilizzati per giustificare il sistema di potere russo o per condannare i cittadini, ritenuti una massa da plasmare e utilizzare come meglio si crede. Valutazioni che sarebbero anche comprensibili, se non fossero spesso e volentieri adoperate per rafforzare opinioni e giudizi pregressi riguardo al Cremlino, soprattutto dall’inizio della guerra in Ucraina il 24 febbraio 2022.

Come è cambiata la Russia di Putin a due anni dall’invasione dell’Ucraina

Sembrerebbe quindi tutto come previsto, un consenso abilmente costruito attraverso pressioni di ogni tipo sui luoghi di lavoro, la novità del voto elettronico – dispositivo fuori da ogni controllo – come strumento per ottenere risultati ancora più strabilianti, i tre giorni di urne aperte con schede elettorali portate casa per casa, furgoncini e automobili diventati seggi su quattro ruote, la possibilità di votare ancor prima del 15 marzo o a distanza utilizzata da 10 milioni di persone, e una campagna elettorale praticamente assente, con il Putin presidente che ha offuscato l’omonimo candidato, in una sovrapposizione oramai abituale in cui non è mai chiaro se a parlare è l’uomo di Stato o il politico chiamato a render conto del proprio mandato. Eppure queste elezioni rappresentano un elemento di rottura rispetto al passato, a partire dal risultato che più di un trionfo sicuro presenta la necessità, ormai espressa anche più o meno chiaramente, di una ricerca della legittimazione del proprio operato e della scelta cruciale posta da Vladimir Putin al paese due anni fa, ribadita in continuazione in ogni intervento pubblico, intervista, incontro istituzionale.

La guerra è la dimensione del sistema putiniano oggi, e l’accento posto con particolare insistenza sulla creazione di una nuova élite forgiata dal fronte e da formare attraverso i corsi già predisposti da Kirienko nell’ambito del progetto Vremya geroev lo conferma, nell’esaltazione di una base sociale ritenuta garanzia per il futuro del Cremlino. Può sembrare paradossale, visti anche i risultati annunciati dal Tsik, il Comitato elettorale centrale, e le celebrazioni mediatiche, ma il Putin del quinto mandato presidenziale nei suoi discorsi si presenta come leader non di un paese stretto attorno alle sue scelte, ma a capo di una parte di esso, in conflitto permanente con i “traditori”. Risulta difficile capire tale attenzione, allora, verso chi dissente, se, come viene ricordato a più non posso, si tratta di una minoranza, nemmeno rappresentata dai tre candidati dei partiti presenti alla Duma e totalmente integrati nell’architettura di regime; forse il timore è alimentato più da un futuro dove le contraddizioni nate nel corso dell’avventura militare in Ucraina possano diventare incontrollabili e foriere di conseguenze sgradite. Non è nemmeno detto che le contrapposizioni debbano provenire da chi si oppone alla guerra e a Putin, e un saggio di questo lo abbiamo avuto il 24 giugno 2023 con la marcia su Mosca di Evgeny Prigozhin, durante la quale la maggioranza espressa dalle urne non era scesa in piazza per difendere il proprio presidente, diversamente da quanto (con le dovute e necessarie differenze) avvenuto in occasione del tentato golpe in Turchia del luglio 2016, quando in sostegno ad Erdoğan si mobilitarono centinaia di migliaia di cittadini e attivisti. Uno scenario, quello di una possibile (ma al momento lontana) contestazione da parte dei sostenitori della guerra ad oltranza, da tenere sempre presente e che la strombazzata nascita della classe dirigente proveniente dalle trincee e dai fangosi campi di battaglia può solo rendere ancor più facile.

Nel riassumere cosa è avvenuto nei tre giorni di voto, emergono delle ulteriori novità che rendono le elezioni presidenziali del 2024 a suo modo un momento di passaggio nella fase aperta dalla guerra. Per la prima volta si è assistito a scene di attacchi ai seggi e alle urne: si è tentato di appiccare il fuoco, si è versata vernice o zelyonka – il disinfettante dall’intenso color verde – sulle schede, e nella regione di Belgorod intensi bombardamenti hanno colpito le città e i villaggi vicini alla frontiera ucraina e lo stesso capoluogo. Atti mai accaduti nemmeno in altri momenti di crisi e scontro nel paese, dove fino a qualche anno fa gli attentati colpivano stazioni della metropolitana, scuole, teatri e mercati ma mai seggi elettorali, e non si erano avuti colpi d’artiglieria a scandire la giornata come accaduto a Belgorod. La versione fornita dalle autorità russe vede la responsabilità dell’intelligence ucraina dietro ai tentativi incendari e alle urne vandalizzate, attraverso truffe effettuate nei confronti di ignari cittadini che avrebbero versato per errore ingenti somme di denaro richieste da abili imbroglioni via telefono, ma resta certa la punizione invocata, tra gli altri, dalla presidente del Tsik Ella Pamfilova e da Dmitry Medvedev e poi agitata da Putin, con la proposta di equiparare questi atti al reato di alto tradimento, che prevede dai dodici ai venticinque anni di reclusione.

L’inasprimento delle pene è stato uno dei principali punti toccati dal presidente riconfermato durante la conferenza stampa tenuta a urne chiuse per commentare i risultati. La pena di morte, assente nel Codice penale russo ma invocata a più riprese nell’ultimo biennio, non verrà introdotta, ha dichiarato Putin, ma nei confronti sia del Corpo volontario russo, l’RDK (formazione armata di estrema destra legata all’esercito ucraino), che di altri traditori si opererà come se si fosse in territorio d’operazioni militari, un messaggio chiaro riguardo a un inasprimento ancor più forte delle repressioni politiche, perché – come già accaduto per organizzazioni quali l’FBK, la Fondazione per la lotta alla corruzione di Alexey Navalny – a esser dichiarati terroristi in Russia non è solo chi imbraccia le armi e attacca le forze armate russe. Un segnale confermato anche dall’aver per la prima volta chiamato per nome il politico morto in detenzione nella colonia penale di Kharp, dopo aver utilizzato per anni espressioni d’ogni genere. Putin sembrerebbe confermare quanto dichiarato, dopo la morte di Navalny, da Maria Pevchikh, a capo del team investigativo della Fondazione, sullo scambio approntato: la condizione posta dal presidente, ovvero la rinuncia a rientrare in Russia per il leader, ricorda quanto avvenuto per la grazia concessa a Mikhail Khodorkovsky ma segnala anche il timore nei suoi confronti. Leggere tra le poche parole di cordoglio la rivendicazione di quanto avvenuto, probabilmente, può sembrare un’esagerazione giornalistica, ma il contesto delle frasi, a cui si è aggiunto il riferimento a come vi siano morti improvvise anche nei penitenziari statunitensi, appare voler rafforzare un’immagine temibile e tetra dell’operato del Cremlino.

Il regime di Putin dovrà fare i conti con l’eredità di Navalny

Alexey Navalny aveva fatto appello, come è stato in seguito confermato da Yulia Navalnaya, a presentarsi alle urne a mezzogiorno dovunque vi fossero seggi. Sulla preferenza da dare si è ricorsi allo schema già elaborato dal 2011 in occasione delle elezioni per il rinnovo della Duma sul votare per chiunque ma non per Putin, anche annullando il voto. La fragile e divisa opposizione russa si è espressa chi per votare per gli altri tre candidati, chi, come l’attivista Maxim Kats, per sostenere Vladislav Davankov di Novye Lyudi e chi infine per annullare la scheda o boicottare l’appuntamento elettorale. L’appello di Navalny ha però avuto un richiamo importante, sia in Russia che soprattutto all’estero, con code molto numerose in prossimità dei seggi e delle ambasciate e dei consolati, spesso occupando vari isolati. Se è vero che in fila, come accaduto a Milano e in misura minore a Roma, vi erano anche sostenitori di Putin, ad animare e a essere maggioritari (anche sulla base degli exit-poll forniti dal progetto Golosui za rubezhom, “vota all’estero”) son stati gli elettori contro il presidente, e in ben 52 seggi all’estero dove vi son state le ricerche dei volontari è stato Davankov ad affermarsi, in alcuni casi, come ad Almaty, Belgrado, Buenos Aires, Erevan, Istanbul e Praga, dove l’emigrazione arrivata dopo il 2022 è molto forte, i risultati per Putin variano dal 3 al 6%. Nulla di indicativo, si tratta di eccezioni e di realtà dove vive chi è fuggito dalle repressioni e dalla mobilitazione al fronte, ma nel caso di Belgrado e Praga gli exit-poll son stati confermati anche dai risultati ufficiali: nella capitale serba Davankov ha ricevuto il 66% a fronte del 10% di Putin, in Repubblica Ceca invece rispettivamente il 59,89% e il 15,68%. Un caso particolare, quello di Davankov, vicepresidente della Duma e pienamente integrato nel sistema, votato da una parte dell’elettorato ma non, a quanto dichiarato, da alcuni esponenti di Novye Lyudi, i quali hanno ammesso di aver espresso la propria preferenza per Vladimir Putin, a riprova dell’aspetto teatrale delle elezioni presidenziali.

In migliaia ai funerali di Navalny: un atto di resistenza contro Putin

Vi è un quadro di Alexey Sundukov, un artista sovietico, chiamato La coda, e esposto al Museo Russo di San Pietroburgo; il dipinto è stato realizzato nel 1986. La fila è stata un’esperienza storica ancor precedente l’Unione Sovietica, sin da quando, nel 1916, viene introdotto il razionamento dei beni di prima necessità nell’impero zarista impegnato nella Prima guerra mondiale, ma è nel decennio finale del regime comunista a diventare quello che Gian Piero Piretto, nel suo libro Indirizzo: Unione Sovietica. 25 luoghi emblematici di un altro pianeta, ha definito come “...uno spazio, un territorio culturale in cui, loro malgrado, esseri umani diversi si trovano a dover condividere tempi anche lunghi, tensioni emotive, rapporti sociali, eventuali risse o, più rare, occasioni di conoscenza e socializzazione. A farla diventare un luogo.” Nei primi tre mesi di quest’anno vi son stati momenti in cui la fila è tornata prepotentemente nello spazio pubblico russo: prima le sottoscrizioni per la candidatura di Nadezhdin, poi i funerali di Navalny e infine le elezioni. Non è detto, soprattutto per quanto riguarda l’ultimo appuntamento, che in coda vi siano solo sostenitori dell’opposizione, ma diventa l’ambiente dove diventa possibile una forma non mediata e non controllata di socialità e di discussione, anche aspra, e permette di costruire una orizzontalità di cui la società russa è priva da tre decenni. Il nuovo mandato di Vladimir Putin dovrà confrontarsi con i fenomeni scaturiti dalla guerra, tra la promozione di un proprio gruppo sociale di riferimento e la ricerca, dall’altro lato, di una nuova connessione dal basso, e le mirabolanti cifre ufficializzate dal Tsik, forse, risulteranno essere poco utili nel risolvere una polarizzazione minimizzata, disprezzata, sottaciuta ma sempre più evidente.